Lo squalo bianco a Venezia: i segreti del suo ritorno
E’ sempre più frequente leggere sui giornali italiani di avvistamenti di squali bianchi, i più temuti predatori dei mari, l’ultimo registrato a Rimini solo un mese fa. Potrebbero sembrare notizie curiose, strane coincidenze, ma la vera “storia” che si cela dietro questi avvistamenti è completamente diversa. Ve la raccontiamo con l’aiuto del Direttore del Museo di Storia Naturale di Venezia, Luca Mizzan, biologo marino, istruttore subacqueo e grande amante del Mare, con il quale siamo andati alla scoperta dell’affascinante “dietro le quinte” del Museo e della storia di questo temuto animale che interessa il nostro mare: l’Alto Adriatico, un’area che, per molto tempo, è stata addirittura una delle regioni al mondo più infestate dagli squali con ben 22 catture accertate di Great White Shark solo tra il 1890 e il 1909 e dove, proprio nel 1909 in una tonnara di Lukovo in Croazia, è stato catturato uno degli esemplari più grandi al mondo, lungo ben 6,6 metri.
Le attività del Museo vanno ben oltre i propositi espositivi e didattici per cui è conosciuto al grande pubblico, interessando anche ambiti della ricerca scientifica su progetti che vanno dalla biologia marina all’entomologia. Con due milioni e mezzo di esemplari catalogati, basti pensare che metà del Museo è dedicata ad archivi, nelle sale più “segrete” del Museo un team di 9 ricercatori, tra biologi, entomologi, paleontologi e un tassidermista, cataloga, studia, confronta e analizza centinaia di data base fisici ogni anno. Un “tesoro” che conta anche collezioni molto importanti, punto di riferimento per ricercatori e Università di tutto il mondo, come rari erbari ed algari ottocenteschi o il più grande database genetico di collezioni micologiche, nonché l’essere a capo di vari progetti per la salvaguardia della fauna locale, tra cui la gestione dell’unico centro di recupero italiano per tartarughe marine dell’Alto Adriatico, ed anche fungere da osservatorio dell’evoluzione delle specie autoctone dalle Dolomiti al mare.
Tornando al predatore dei mari, la sua presenza in Alto Adriatico è, infatti, ben testimoniata al Museo di Storia Naturale da un esemplare di squalo bianco di tre metri e mezzo pescato vicino a Trieste nel 1902. Se molti visitatori potrebbero pensare che sia un modello, uno dei “segreti” del Museo è proprio che tutti gli animali esposti sono esemplari veri, trattati con il procedimento della tassidermia che deve lasciare l’animale quanto più identico all’esemplare vivo nell’esterno, consentendo però di prelevare il suo codice genetico per poter condurre delle analisi anche ad anni di distanza.
E’ grazie, quindi, allo studio della storia e alla “catalogazione” delle tracce che gli animali lasciano nel passato che gli scienziati sono in grado di leggere i segnali di trasformazione di un territorio, cercando di capire perchè, per esempio, certe specie spariscano ed altre ricompaiono.
Nel caso dello squalo bianco si tratta, infatti, di un ritorno: basti pensare che la Croazia è stato il primo paese al mondo ad aver installato, nei primi del ‘900, delle reti antisqualo per i bagnanti e che, come si scopre nella Biblioteca storica del Museo di Storia Naturale, sono stati molti i casi documentati di attacco di squalo bianco in Alto Adriatico: tra i più cruenti citiamo quello nel 1934 a Susak in in Croazia dove perse la vita una ragazza, nel 1954 a Izola in Slovenia, dove morirono due uomini, e quello di Abbazia in Croazia nel 1961, dove perse la vita uno studente, sino all’ultimo attacco letale che, pare, risalga al 1974 a Preluca in Croazia. Non sono poi molte miglia da Venezia no? Gli ultimi avvistamenti ufficiali di squalo bianco proprio a Venezia risalgono al 1978, quando un esemplare di circa 5 metri è stato fotografato 10 miglia al largo del Porto di Lido, e nel 2001, quando un altro animale di simile grandezza è stato visto 1,5 miglia al largo di Piave Vecchia (Jesolo).
La ragione per cui in questo lembo di mare ve ne fosse un numero così considerevole è da ricondursi alla catena alimentare di questo animale. Sino agli anni ’60, infatti, le coste della Croazia, della Slovenia ed il Golfo di Trieste erano altamente popolate proprio degli animali di cui lo squalo ama cibarsi tra cui foche, delfini e tonni (anche nelle coste veneziane a cavallo tra ‘800 e ‘900 non era inusuale pescare tonni di oltre un quintale), ma queste specie sono state via via sterminate dall’uomo per cause diverse, sino a decretare anche la fine della presenza dello squalo nel Nord Italia. Se i tonni sono spariti a causa della loro pesca eccessiva, i delfini sono stati cacciati perché animali troppo intelligenti – distruggevano le reti da pesca per mangiarsi il contenuto – e quindi un tempo dannosi per le attività ittiche.
Nei primi decenni del ‘900 è stata, quindi, la mano dell’uomo ad eliminare la presenza di intere specie dai nostri mari ed oggi è la natura stessa, con il riscaldamento delle acque e l’invasione di meduse dovuta allo squilibrio dell’ecosistema, ad invertire le sorti della storia. Gli squali, infatti, amano l’acqua calda (tranne lo squalo bianco), e l’enorme disponibilità di meduse attira tonni, pesce spada e tartarughe che di queste si cibano, ma che a loro volta sono cibo prediletto per lo squalo, ponendo così le basi per il ritorno del predatore più letale nel nostro mare e dandoci, quindi, una spiegazione scientifica per i suoi avvistamenti sempre più frequenti.
Dobbiamo preoccuparci? Sicuramente ancora per molto tempo potremmo vedere al massimo qualche caso isolato, magari all’inseguimento di cibo facile da cacciare in un mare “chiuso”, oltre al fatto che gli squali bianchi in genere amano i fondali alti e non certo le nostre coste sabbiose, ma sicuramente la vera storia della presenza di questo killer leggendario nel nostro mare fa riflettere, in primis sull’importanza della nostra memoria storica.