Damien Hirst a Venezia: last call per vedere la mostra del secolo
Avete tempo fino al 3 dicembre 2017 per non pentirvi di aver perso la mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst, ospitata a Punta della Dogana e Palazzo Grassi a Venezia, quella che è stata definita non solo la mostra dell’anno ma, addirittura, del secolo.
Potrebbero bastare gli “assoluti” che ruotano intorno al progetto per solleticare una fatale e morbosa curiosità: la mostra più costosa della storia (Hirst in un’intervista sembra alludere a 50 milioni di sterline per la sola “produzione”) fatta dall’artista più pagato al mondo, l’evento dalla produzione più laboriosa con 10 anni di gestazione e oltre 250 artigiani che hanno lavorato alla sua realizzazione, la mostra più criticata, ma anche amata considerato che è la più instagrammata con oltre 130.000 visitatori in soli 4 mesi dall’apertura, nonché l’unica del suo genere che ha già venduto tutte le opere (e non sono nè poche nè a buon prezzo!). E si potrebbe andare avanti ancora e ancora.
Per non parlare della singolarità dei contenuti: il progetto racconta, con un incredibile sforzo narrativo per far sembrare la storia quanto più vera possibile, il ritrovamento nell’Oceano Indiano del vascello del liberto (schiavo liberato) Cif Amotan II affondato nel II sec. a. C. con a bordo tutti i tesori accumulati durante i suoi ricchi commerci da uomo libero: statue, gioielli e monili realizzati in materiali preziosi, dall’oro all’argento sino al marmo e alle pietre dure. 100 oggetti con cui Hirst, usando le sue stesse parole, racconta la storia del mondo.
Ogni opera raffigura, infatti, un episodio appartenente al mito delle più grandi civiltà (egiziana, atzeca, greca, romana…) trasformato in metafora dei nostri tempi: un ottimo pretesto per approfondire le leggende delle maggiori icone degli ultimi 3.000 anni. Figure mitiche come Andromeda, Cerbero, Medusa, il Minotauro, Idra e Kali sono interpretate da Hirst con l’insolente ironia a cui ci ha ben abituati e ragion per cui difficilmente tra i suoi numerosi haters troverete chi ama il buon sarcasmo. Guardando da vicino i busti di dee egizie, ci si accorge, infatti, che recano sul retro la scritta “Mattel” e che in realtà sono, quindi, ispirati a Barbie, che il Faraone ha un piercing sul capezzolo o che la bellissima collana in oro, che ricorda la celebre serie Medicine Cabinet dell’artista, è decorata con pillole incise con le lettere “VGR 100” e “XANAX 1.0”. Tutto sfacciatamente pop.
E poi c’è lo sfarzo dei materiali preziosi con cui sono realizzate le opere: la Medusa in malachite valutata quattro milioni di dollari, la statua di donna distesa ottenuta da un meraviglioso blocco unico di marmo rosa, o gli oggetti in oro zecchino e tempestati di pietre preziose. Impossibile non rimanere estasiati di fronte a cotanta bellezza di forme ed è nella perfezione con cui ogni opera è stata pianificata ed eseguita che non si può non ammirare la grande professionalità e maniacale precisione dell’artista.
E poi c’è lui, il suo autoritratto: un busto dal nome The Collector, il Collezionista. E qui iniziamo ad intravedere le argomentazioni più serie da sempre al centro della sua arte: è Damien stesso, working class hero cresciuto a Bristol, metafora dello schiavo liberato (in questo caso l’artista reso libero dal successo?) che diventa un ricco collezionista per poi diventare esso stesso vittima di un’ossessione: neutralizzare la morte attraverso l’accumulo di beni-simbolo che possano succedere alla morte stessa o, meglio, definire la sua immagine post mortem, e da mostrare quindi al pubblico e al mondo intero.
Se tutto questo non bastasse, la mostra è anche una delle più straordinarie lezioni sul potere dello storytelling ed è forse proprio questa l’arte più grande di Damien Hirst: quella di saper trasformare le sue ossessioni in fenomeni mediatici planetari, riuscendo a trarre vantaggio dalle logiche dei media con geniale tempismo. Sono tanti i suoi coup de théâtre: la notte del crollo della Lehman Brothers quando ha mandato in asta da Sotheby’s oltre 200 opere, “scavalcando” per la prima volta gallerie e dealer, o la sua opera più famosa, For the love of God, un teschio fuso in platino e ricoperto da ben 8.601 diamanti purissimi, divenuto una delle opere d’arte più iconiche del XXI secolo. Così facendo, ogni lavoro di Damien Hirst, giudicato bello o brutto che sia, è indiscutibilmente sexy nell’essenza di ciò che rappresenta.
Al di là di critiche e recensioni, Hirst è la celebrazione del bad boy che insegue la fama eterna assumendosi grandi rischi ostentati con noncurante sfacciataggine e forse, quello che davvero gli dobbiamo, è proprio l’aver trasformato l’arte in rock’n’roll. Non è forse per questo che i suoi grandi mecenati (da Charles Saatchi a François Pinault) ed il pubblico lo amano?